…..E’ un ruolo diverso, quello del portiere. Disperatamente collegato all’ occasione. Un attaccante, un centrocampista, persino un difensore, può entrare in azione quando vuole. Un portiere no. Deve aspettare l’occasione. Che dipende sempre dalla volontà di qualcun altro. Il portiere reagisce, non agisce. A fa tutta la differenza del mondo. Da ogni punto di vista. Anche perché, quando arriva l’occasione porta con sé l’altra dannazione del portiere: la perfezione. In nessun altro ruolo l’errore tecnico, anche minimo,può essere così determinante. E l’errore, dal punto di vista concettuale, è uno degli elementi più naturali e ineluttabili dello sport. Pensate per fare un esempio che rende l’idea, a quanti errori commette un tennista sulle prime palle di servizio. Ecco. Però lui li considera una cosa normale, quasi una necessità. Nessuno parla di papera, quando una prima pallina finisce due metri al di là della linea.

Invece, a prezzo del ridicolo, un portiere durante una partita non può permettersi nemmeno un centesimo di quegli errori. Deve essere perfetto. E’ obbligato ad esserlo. Anche perché, quando sbaglia lui, il conto lo pagano tutti.

Quest’obbligo di perfezione, questa dannazione sportiva, crea una condizione mentale affascinante, assoluta. Serve una lucidità asettica, gelida. Difficilissima da mantenere durante gli infiniti tempi morti di una partita. In quei novanta minuti abbondanti si creano e si disfano prateria di nulla, vastissime, pronte a riempirsi d’interferenze a ogni istante, con pensieri laterali, ricordi fuori luogo, considerazioni tecniche, preghiere, paure. Basta abbassare la guardia, smarrirsi in uno di questi pensieri, ed è fatta.

Una partita di calcio, per un portiere, è piena di decine di minuti lunghe come giorni, durante le quali non succede niente. E allora, magari, ti viene in mente di pensare a un errore impercettibile che hai compiuto qualche minuto prima e che non vedi l’ora di riscattare, o che potresti compiere di nuovo qualche minuto dopo. Tenere chiuso il cervello a tutto è l’unico modo per non sbagliare. Ma non è facile. Perché, fra l’altro, la pressione è anche interna. Voglio dire, non c’è solo quella creata “dall’ambiente”, ma pure quella che lentamente monta dentro di te, la tua. Una marea interiore composta da tanti elementi e motivazioni, e moltiplicata dall’ agonismo.

Vi siete mai chiesti cosa passa nella testa di un portiere durante una partita? Non fatelo. Sarebbe inutile. Se non avete giocato in porta, non potrete capirlo mai. C’è tutto e niente, lì dentro. C’è un vento silenzioso che dilata il tempo e comprime la volontà, proprio come si comprime una molla. Una molla che però può scattare solo quando arriva l’occasione. Per esprimere la propria vocazione di atleta, la propria rabbia agonistica, un attaccante può calciare con violenza, un’ala può volare lungo la fascia su e giù fino a sentire i polmoni esplodere, un centrocampista può rincorrere gli avversari in tutto il campo, un difensore può fare  il più violento dei tackle.

Il portiere no. Non può fare niente di tutto ciò, eppure è un atleta anche lui, e che atleta! Di tanto in tanto è chiamato a scattare come un puma, e il quel momento può esplodere tutto, furia, rabbia, potenza, velocità, astuzia, coraggio; ma può farlo solo quando capita, quando lo richiede l’azione , e non quando lo decide lui. Per il resto, la sua vita è attesa. Agguato. Compressione. Cose che poi magari nemmeno servono a niente, quando il tiro dell’avversario è imprendibile, o la traiettoria è troppo sporca. E allora deve raccogliere la palla e rimettersi lì, ad aspettare con il suo vento silenzioso nella testa. Concentrato.

 

DINO ZOFF dal suo  libro “Dura un attimo la gloria”

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